Le città dove abitiamo ci cambiano,
ci modellano a gusto loro.
Genova mi ha modellata tante volte,
come tante volte mi ha distrutta.
Nella sua mano sono stata schiava e duchessa,
puttana e dottoressa.
Mi ha fatta a modo suo, e anche se ho provato ad allontanarmi,
accetto di essere sua.
Con la vista fra i monti e il mare.
Solare scottante, e ombrosa ammuffita.
Sono fatta come lei e lei è fatta come me.
Lunga e stretta.
Alle volte borghese, a volte nei bar del Santo Sepolcro.
Alle volte studiosa e intellettuale, alle volte ribelle come gli orti in città.
Ma questo mio essere sua, non è affatto bello o splendente.
Non ne vado fiera.
Invece di essere il timo selvatico sulle rocce dei suoi monti,
somiglio di più al rumore caotico nei vicoli più stretti.
La sua natura da commerciante ha fatto lo stesso gioco,
dare il minimo per trarre il massimo.
Genova è la banca, e la banca vince sempre.
Genova tollera ma non integra.
Genova ti offre il caffè, ma non ti offre un materassino per terra.
Genova vuole da te quello che non potrà mai avere,
e quindi lo prende per forza,
come fanno gli sfigati, i figli di papà, e i ladri.
E quindi, se vuoi stare qui,
devi crescere una pelle dura come le sue mura,
devi non sorridere a gratis,
devi camuffarti come le finestre finte sui palazzi,
devi far finta di non avere niente che ti possa essere tolto,
devi tagliarti le gambe sugli scogli,
devi non volere troppo,
devi contare i centesimi,
devi lamentarti di tutto e di tutti.
Lamentarti che una città del genere con della gente del genere,
sia stata eretta in un posto così privilegiato.
E allora la odi, come si odiano i privilegiati…
Quel pacco di sbalorditi che parlano di comunismo,
di femminismo,
di anarchismo,
di parità,
di giustizia,
dal comfort dei loro terroir famigliari.
Ma poi ci sono quelli veri, quei pochi,
quei secchi, mugugnoni, semplici,
fottutamente veri,
quelli che non fanno i simpatici,
quelli che non sorridono per falsità o cortesia,
quelli che ti guardano a mezz’occhio con la siga in bocca,
quelli che vanno in giro sempre con le stesse scarpe – su e giù –
quelli giusti perché a tutti guardano male,
e proprio per quello a tutti danno lo stesso tratto.
Quelli che sanno dove stanno
e dedicano lettere d’amore ai loro cani.
Quelli che si nascondono e sanno stare nascosti,
come il timo selvatico sulle rocce dei monti.
Quelli che non stanno a parlare del più del meno,
perché le parole sono uno spreco.
Quelli che hanno dentro il passato vero di questo territorio,
non quel passato «superbo», da signora repubblica,
da banche e banconote, e d’altari d’oro celati nei palazzi grigi.
Parlo da quel passato fatto da terra dura, secca e arrampicata,
con rocce taglienti, piena di olio e scarsa di burro,
piena di ginestre e scarsa di riservatezza.
E mentre scrivo sento qualcuno urlare nei vicoli
«ma come ti permetti a parlarmi così»
con quel accento genovese odioso, dalle {e} aperte,
che fa stringere i denti.
Con così poco spazio si sono sovrapposti gli uni sopra gli altri,
come le pietre nei muretti a secco,
senza lasciare spazzi,
senza nessuna specie di colla.
Da Genova non si può che partire,
partire verso il mondo nuovo per mai più tornare.
Mi chiedo quindi,
chi è che torna a Genova?
sennó quelli come me
che abbiamo una ferita lunga e stretta,
che ci taglia il cuore a metà,
fra i monti e il mare.
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