Contro Voglia

Petrarca disse di amare contro voglia, nell’impossibilità di odiare.
Io invece mi ritrovo ad odiare contro voglia, nell’impossibilità di amare.
Odio, odio ancora, ed è forse la fiamma dell’odio a tenere vivo il potenziale amore.
Vive quindi in me il seme dell’amore in un grembo carico di odio.
Che faccia può avere un amore allevato dall’odio?
Forse quella più pura, perchè pur avendo veleno nelle vene,
riesce comunque a crescere verso Dio.

Fayette

Podía llamarme Fayette y cada noche preparar una ensalada distinta,
colocar en el recipiente una cucharada de aceite, otra de vinagre, pepinos, tomates, y aceitunas.
Si mi nombre fuera Fayette, y hubiese hecho todo bien, hoy sería una ama de casa con tre bambini.
No conviviría con la ansiedad y el estrés,
con la falta de autenticidad y el autosaboteo.
Pero quizás estaría todavía sometida el incesante y obtuso yugo de la exigencia del macho,
la de aquél hermano que me vio objeto y no sujeto,
que no pudo cuidar mi corazón para verlo dar sus frutos más dulces.
Quizás Fayette estaría tragando cada gota amarga del resultar invisible
mientras su hombre solo llega a comer en 3 minutos lo que ella cocinó 3 horas.
Quizás Fayette tiene esa cara impasible porque nunca aprendió a decir
aquí estoy, esta soy yo.
En cambio yo, que no soy Fayette, vivo con la abrumadora corriente del todo.
Ahogándome entre voces que gritan un nombre que no tiene letras,
pero que es el mío.

Canción para despertar

Atómico insustancial
La verdad se ha astillado en mi piel

Atómico poco habitual
Alabeas por el camino del fiel

Ya no llegan las arañas a sus destinos
penitenciarias canciones llenan los segundos
de quienes permanenecen atados a sus deseos.

Parlai con lui

Quella sera sono passata sotto casa sua. Erano le 10:57 di una notte di tarda primavera. Aveva la luce della scrivania accesa, e dal vicolo vedevo la sua ombra fare avanti e indietro sui tetti altissimi. La sagoma dell’ombra mi lasciava già capire che aveva la vestaglia addosso e la pipa in mano. A volte si soffermava sulla scrivania come leggendo un foglio o un libro appoggiato su di essa. Dopo la sosta di lettura girava ancora una o due volte senza una direzione chiara. L’ombra che ora era in fondo alla stanza si è girata verso il vicolo, e pian piano è iniziata ad avvicinarsi verso la finestra. Il gelo mi è calato sulla schiena fino ad accarezzare i sottili peli del mio collo. Ho cercato di creare una falsa naturalità, ho messo le mani nelle tasche del cappotto, ho tirato fuori il tabacco, e mi sono messa a girare una sigaretta appoggiata sul portone del numero 22. Così, come se non fossi stata a guardare la sua ombra girare nel salotto di casa sua. Chiunque mi guardassi da fuori mi avesse vista senza nessuna intenzione, come se la vita mi avesse messa lì a quell’ora per puro caso. Al meno così ho cercato di apparire. Ha spalancato l’anta destra, e ha aperto entrambe finestre vetrate, lasciando passare il vento già tiepido dell’estate in arrivo. Non aveva finito di aprire le finestre, quando dall’alto mi ha subito chiamata con quella gioia spensierata ma autorevole che lo caratterizza e della quale spesso mi domando la sua natura. Magari l’avrà presa dai suoi, magari dai nonni o le nonne. Forse è nato così. Forse lui da solo se l’ha creata. Forse è un attore. Bensì ci conosciamo, e abbiamo condiviso piccole chiacchiere sull’arte o sulle particolarità di questa città e le sue genti, molto spesso ho l’impressione che il nostro rapporto è come una traversata su un ponte romano del cui non hanno mai finito il centro. Così siamo rimasti lui da un lato e io dall’alto. «Sali! o vuoi che ti porto il caffè giù?» ha urlato ridendo mentre il cancello elettronico del portone si apriva. Sono salita i quattro piani di questo palazzo del 1618. Dato rilevante visto che era sposto su una magnifica targa di marmo con la figura di San Giorgio lottando contro il drago, all’entrata del palazzo. Gli scalini erano neri e consumati dai secoli, le scale erano illuminate da una morbida luce gialla provvedente dalla porta aperta della sua abitazione. Mentre salivo pensavo che dall’alto quando mi ha beccata, non solo mi ha vista girando una siga «casuale» ha pure intravisto il fiume di pensieri che passavano sotto il ponte romano. Il profumo del caffè, quello buono, riempiva il salotto. Praticamente tutta l’abitazione era un salone unico con ben quattro finestre grosse senza tende. Tetti di almeno tre metri di altezza. In centro alla stanza, la famosa scrivania di legno di castagna. Nell’angolo in fronte a destra il suo letto disfatto solo a metà. A sinistra un cucinotto con l’essenziale e un tavolo per quattro persone ma con solo due sedie. Nell’angolo a sinistra una poltrona di lettura con una luce accanto. Di resto, il luogo era occupato da oggetti di tutto tipo, statue, quadri, libri per terra, delle antichissime casse di legno con dei libri appoggiati sopra. A simple vista sembravano oggetti comuni, ma osservando bene gli oggetti non avevano una forma definita. Sembrano dei mutanti. L’ho trovato mentre riempiva la pipa accanto alla finestra appena aperta.
– Non mi ero reso conto che l’aria è già diventata calda. Sai da quando?
– Credo proprio stasera.
– Ma tu che ci fai a fare i giri a quest’ora?
-… Penso sia stata l’aria… non lo so spiegare … la notte sembra di voler parlare…
Il caffè è salito. Lui si è girato in fretta, ha lasciato la pipa sul bordo della finestra, ed è andato di corsa a servire il caffè su due tazzine azzurre piccolissime fatte da una ceramica sottilissima. Siamo rimasti in silenzio a sorseggiare il caffè. C’è qualcosa di strano quando sono le mie parole a rimanere nell’aria. Mi sento inadeguata, la sua presenza vuole e ha bisogno di frasi concludenti e tonde, che possano aprire nuovi fuimi argomentali, non di pensieri banali. Spesso mi becca avendo queste elucubrazioni, e come se potesse leggere la mia mente, sorride e dice qualcosa per rompere la mia gravità, tipo…
– E cosa dice, la notte?
Mi sono accesa la sigaretta accanto alla finestra aperta, lui nel frattempo metteva un ellepí di Mulligan. Mi è venuto incontro e ci siamo messi entrambi a fumare dalla finestra guardando il portone del 22, le altre finestre, qualcuna con della luce fioca. Le calate della sigaretta mi mettevano in pace, e il silenzio diventava sempre di più confortante, come se a volte le nostre conversazioni avessero luogo in una dimensione non carnale.
– Chissà come mi vedono gli altri da queste finestre buie, mentre sono qui a pensare in vestaglia.
Si è svelato. Ho sempre trovato curioso come, nelle poche occasioni che siamo da soli, mi confida dettagli profondi della sua vita con totale schiettezza.
– Cos’è che pensi con tanta sofferenza spirituale?
Ho chiesto.
– Sto disegnando una sorta di apoteosi. Una performance, o come lo chiamano ora un happening. Non so ancora se esserci, o mettere al posto mio un manichino.
Ha detto con un sorrisino machiavellico. Ho sorriso pure io.
– Se posso dare una mano…
– No no, questa la devo fare da solo, anche se mi ci metto una vita. E quindi cos’è che ti ha raccontato la notte finora? Come mai passi sotto casa mia senza notifica?
Ha detto ridendo, cambiando argomento velocemente sulle cose banali e mettendo l’attenzione sul suo interlocutore.
– Sempre che passo da Via Umbria guardo verso le finestre della tua torre. A volte ti vedo, vedo soltanto la tua ombra girare sui tetti, altre volte intuisco che ci sei anche se non vedo l’ombra e ti immagino senza fermare il passo…
– Ok Ok Ti perdono.
«… Altre volte… quando il vento è caldo e la notte calma, una pietra compare sul nostro ponticello…» ho continuato nella mia mente. Finita la sigaretta, sono scesa. Giù dal vicolo ho guardato su, aveva lasciato le finestre aperte e si era seduto alla scrivania. Mulligan ormai suonava lontanissimo. L’ombra ormai si era fermata e concentrata in una forma unica. La sagoma si era stesa in prospettiva sui tetti altissimi, come una fiamma in negativo, come una roccia in attesa di qualcosa.

Movimiento Antipragmático

Me encontré con el profesor el otro día,
estábamos sentados en el sofá.
Hablaba de la semántica, al sintaxis y la pragmática,
me decía que yo debía aprender a ser pragmática,
a considerar los fenómenos por sus efectos, y no por su probabilidad.
Haciendo un círculo con una línea segmentada,
y una línea recta tangencial al círculo,
me decía que yo era el círculo, y la tangencial el rumbo al pragmatismo.
Apenas abrí los ojos a media asta,
reconocí las montañas detrás Noli,
volví a mi encuentro con el profesor, pero él ya no estaba allí.
A la sala habían entrado mis padres,
se reían de un chiste que solo sabían ellos,
me apuraron… era hora de irse…
Nos montamos los tres en la camioneta roja,
en la parte de atrás pusimos las maletas y los corotos, y nos dirigimos a Caracas.
18 horas de camino.
No habíamos llegado a la frontera,
cuando me quedé dormida con la cabeza apoyada en el hombro de mi madre.
Creo que ella también iba dormida, apoyando su cabeza sobre la mía.
Me desperté justo cuando llegamos,
subimos al apartamento de Eduardo y nos encontramos a todos sus amigos jugando dominó en la terraza.
Lástima que no me pude quedar, se me hacía tarde para ir a clases.
Ya mis estudiantes estaban en la sala magistral,
tenía que explicarles la máxima pragmática.
Ese día entré a la sala 33E y me senté en la última fila,
esa fue mi cátedra.
Mientras salía pensaba que debía tomar el tren de las 5:30,
y eran las 5:15, tenía solo 15 minutos para correr a Principe,
y llegar donde Bruno.
Entonces corrí,
me pesaba el maletín con todos los ensayos de mis estudiantes,
pero logré subirme al tren.
Apoyé la cabeza en el vidrio frío.
Me desperté unos minutos después para cambiarme de asiento,
no tenía razón para hacerlo pero sentí que debía hacerlo,
me senté unas filas más atrás,
y no bien me había sentado el vidrio donde unos segundos antes se apoyaba mi frente
estalló en mil esquirlas.
El shock me volvió a despertar,
esta vez en el bus de Medellín a Barranquilla a la altura de Caucasia,
nos había parado la guerrilla a mitad de la noche.
El silencio de las 3AM me permitió escribir una oda a un sueño,
en la oda describía unos elementos y sus asociaciones semánticas,
y los iba organizando palabra tras palabra en unidades sintácticas,
a veces sustituía el paradigma,
y remplazaba futbolistas por filósofos.
El profesor me había invitado a ver con él ese partido de fútbol entre griegos y alemanes,
y en mis clases me gusta mostrarles ese clip a mis alumnos,
y sacarles unas risas.
El chiste me saca unas risas,
y me doy cuenta que me estoy riendo en mi propio sueño.
Al abrir los ojos me encuentro con una hoja de papel en mi mano derecha,
es el ensayo de una de mis estudiantes,
me dispongo a leer el primer párrafo:
ella propone hacer un cambio de paradigma e intercambiar sueños por anécdotas.
«Debemos considerar los sueños como reales momentos de vida…» dice.
El tren empieza a detenerse, miro por la ventanilla,
y efectivamente he llegado a destino.
Apenas me bajo, me dirijo al malecón a ver el atardecer de las 9pm,
me siento en una banquita vacía,
el cielo se tiñe de naranja radioactivo,
el sol empieza su descenso sobre el mar,
y a las 9:30 con los ojos del alma bien abiertos,
me voy a ir a jugar dominó con todos ellos.